Direttiva macchine: responsabilità di un danno causato da una macchina costruita nel periodo di tardivo recepimento

La legge italiana, per individuare la responsabilità in caso di danno causato da una macchina, si avvale delle norme di natura generale previste nel codice civile per i fatti illeciti, ovvero l’articolo 2043: «qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno».

Per l’esercizio di attività pericolosa — come deve considerarsi quasi sempre quella esercitata attraverso o con l’apporto di una macchina — è espressamente scritto l’articolo 2050 del codice civile, secondo il quale «chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno».

Dato che quasi sempre la macchina lavora nell’ambito dell’impresa, per quanto riguarda il lavoro subordinato è molto importante l’articolo 2087 del codice civile [1], che recita: «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori».

Gli articoli del codice civile sopra citati individuano i criteri generali della responsabilità da fatto illecito produttiva di danno economicamente valutabile: qualora il danno venga causato da una macchina, questa sarà per prima cosa sottoposta a esame, al fine di individuare se le sue caratteristiche progettuali e d’uso siano conformi alle disposizioni legislative applicabili.

Nell’ambito di quanto fin qui descritto, va considerata la questione della responsabilità per i danni causati da macchine costruite nel periodo in cui la direttiva era operativa in tutta Europa ma non in Italia, a causa della colpevole tardività nel recepimento da parte del nostro Paese.

Si è già detto che, per sua natura, la direttiva europea è rivolta agli Stati membri e non ai cittadini: per essere operativa in uno Stato membro, essa ha bisogno di una disposizione legislativa interna di recepimento. Fino a che non viene recepita, la direttiva non è obbligatoria per i cittadini del Paese che non ha ancora operato il recepimento. Pertanto, nel caso della direttiva 98/37/CE, le macchine immesse sul mercato o messe in servizio in Italia sino al 21 settembre 1996 — data di recepimento nell’ordinamento italiano della direttiva — non avevano l’obbligo giuridico di essere costruite secondo quanto dalla stessa prescritto e lo stesso accade per il rispetto della direttiva 2006/42/CE da parte delle macchine fino al 6 marzo 2010.

Tuttavia, come spesso accade, poiché la legislazione europea è più avanzata e attenta ai diritti individuali di quelle nazionali, dalla direttiva non recepita o tardivamente recepita possono sorgere dei diritti di natura individuale per i cittadini, diritti che la legislazione nazionale non garantisce a sufficienza; in tal caso, secondo l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia europea, lo Stato inadempiente diventa responsabile dell’eventuale danno che il cittadino possa aver subito a causa della mancata o tardiva attuazione della direttiva.

Nel caso della direttiva Macchine, è evidente che la macchina costruita rispettandone i requisiti è più sicura e potenzialmente meno dannosa di quella fabbricata con i criteri prima vigenti; da questo ne deriva che la direttiva garantisce ai cittadini un maggior diritto alla sicurezza, all’incolumità personale e alla salute.

Sul punto — cioè sulla necessità di garantire ai cittadini i diritti che nascono da una direttiva europea, recepita o meno nell’ordinamento interno — si è espressa la Corte di Giustizia europea: «se un atto normativo comunitario è fonte di diritto per i singoli, di tale atto va assicurata la piena e uniforme efficacia; tenuto ad assicurarla, è prima di tutto lo stato, attraverso i suoi organi, quindi per primi i giudici nazionali».

La Corte di Giustizia ha elencato i soggetti nei confronti dei quali può essere invocata una direttiva non attuata in modo diretto, cioè senza tramite dell’autorità giudiziaria, ovvero:

  • gli enti pubblici territoriali, cioè Regioni, Province, Comuni;
  • l’autorità tributaria;
  • le autorità tenute a far rispettare l’ordine pubblico;
  • enti che svolgono servizio sanitario;
  • qualsiasi altro soggetto incaricato di svolgere un pubblico servizio.

La Corte di Giustizia ha anche stabilito, già negli anni ’90 nella nota sentenza Francovich, il principio del risarcimento del danno per mancata, tardiva o non corretta attuazione di una direttiva da parte di uno Stato membro.

Affinché sorga il diritto al risarcimento, la Corte di Giustizia ha delineato tre presupposti:

  • che la direttiva non attuata implichi attribuzione di diritti a favore dei singoli;
  • che il contenuto di tali diritti sia individuabile sulla base della direttiva stessa;
  • che ci sia un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi.

La domanda che sorge subito è la seguente: può una direttiva non ancora recepita essere fatta valere nei confronti di soggetti privati come nei confronti dei soggetti di diritto pubblico?

Risponde la Corte di Giustizia europea (10 aprile 1988, causa C/14/84): «poiché ogni Stato membro ha l’obbligo di conseguire il risultato previsto dalla direttiva [2], ogni Giudice nazionale, quale organo dello Stato membro, è tenuto ad interpretare il diritto interno quanto più possibile alla luce e allo scopo della direttiva, per conseguire il risultato voluto dalla direttiva stessa, conformandosi così al Trattato istitutivo dell’Unione europea».

L’obbligo di interpretare il diritto interno in modo conforme alla direttiva vale per il giudice nazionale a prescindere dal fatto che la direttiva da considerare sia successiva o precedente alle norme nazionali da applicare.

Pertanto, nell’ordinamento italiano, come in quelli di tutti gli altri Stati membri, la tutela del privato cittadino, a fronte di una direttiva non ancora attuata, si effettua in due modi distinti:

  • nei confronti dello Stato e dei pubblici poteri in via diretta, opponendo la direttiva senza il tramite necessario dell’autorità giudiziaria;
  • nei confronti di altro cittadino, solo attraverso il tramite dell’autorità giudiziaria, cioè in corso di causa.

Il giudice chiamato a pronunciarsi sulla questione «ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando la disposizione contrastante eventualmente esistente nella legge interna, sia anteriore che successiva al diritto comunitario».

Nel caso specifico della direttiva Macchine, il recepimento nell’ordinamento italiano è avvenuto, come detto più sopra, con un ritardo di circa 22 mesi: per il fabbricante che ha immesso sul mercato macchine in quel periodo non c’era obbligo di legge di attenersi alla direttiva, ma solo alle disposizioni legislative anteriormente vigenti.

A questo proposito, nelle “Risposte date dai servizi della Commissione ai quesiti relativi all’applicazione della direttiva, dopo aver consultato il comitato da essa istituito sull’applicazione della direttiva 89/392/CEE del Consiglio, del 14 giugno 1989, relativa alle macchine, modificata dalle direttive 91/368/CEE, 93/44/CEE e 93/68/CEE del Consiglio” (i cosiddetti pareri definitivi sull’applicazione della direttiva Macchine) si legge:

D.76 — 1. Che cosa accade se la direttiva non è stata recepita in tempo nel diritto nazionale?

2. Un fabbricante può apporre la marcatura CE sulla sua macchina se la direttiva non è stata recepita nel diritto dello Stato membro in cui egli è stabilito?

R.76 — 1. La direttiva entra in vigore alla data fissata dal Consiglio. Essa impone obblighi agli Stati membri (tra cui quello di modificare la normativa esistente), ma se uno Stato membro non l’ha trasposta, in quello Stato continuano ad essere vigenti le vecchie norme per l’immissione in commercio.

Tuttavia, è sufficiente che la direttiva sia recepita in un solo Stato membro perché un fabbricante stabilito in un altro Stato membro o all’estero possa utilizzarla.

Egli effettuerà una “immissione in commercio”, eventualmente fittizia, nello Stato membro in cui è avvenuto il recepimento e quindi, ricorrendo al principio della libera circolazione, verso gli altri Stati. In questo caso, il fabbricante ha il diritto di rifiutarsi di seguire le vecchie normative di uno Stato membro che non le abbia ancora abrogate.

2. Se la direttiva è in vigore ed è stata recepita in uno o più Stati membri, il fabbricante che proceda come illustrato ai punti precedenti può apporre la marcatura CE sulla sua macchina.

Nel preambolo introduttivo della direttiva — i cosiddetti “considerando” — viene chiarito che essa è stata emanata allo scopo di ridurre gli infortuni provocati dall’utilizzazione delle macchine e che si propone di migliorare la sicurezza delle macchine intervenendo sulla loro progettazione, costruzione, installazione e manutenzione.

Da quanto sopra, emerge che la direttiva, rispetto alla legislazione italiana prima vigente, garantisce nuovi diritti al cittadino, relativi alla salute e all’incolumità fisica, prima non sufficientemente tutelati. Se ne conclude che il cittadino che sia vittima di incidente causato da una macchina non rispondente ai requisiti della direttiva nel periodo di mancata tempestiva attuazione — incidente che causi la lesione di un diritto e quindi un danno economicamente valutabile — può chiedere il risarcimento di questo danno direttamente allo Stato, dopo averlo debitamente provato e con i presupposti prima detti della Corte di Giustizia europea.

Oltre a richiedere il risarcimento del danno subìto direttamente allo Stato, il cittadino può inoltre, nel corso della causa intentata contro privati per il risarcimento del danno, per esempio nei confronti del costruttore della macchina, chiedere al giudice di applicare al suo caso la direttiva stessa, anche se non ancora recepita.

Il giudice ha il dovere di applicarla, stante il primato del diritto comunitario su quello nazionale; si consegue, cioè, per via giudiziale il risultato voluto dalla direttiva non recepita, in quanto i diritti in gioco garantiti dalla legge comunitaria, cioè il diritto alla sicurezza, alla salute e all’incolumità fisica, sono di livello elevatissimo e considerati irrinunciabili [3].

Va però ribadito che le osservazioni sopra espresse costituiscono l’orientamento ormai consolidato della Corte di Giustizia europea; a questo proposito, si vedano per tutte, la sentenza del 14 luglio 1994, causa C-91/92, resa in una causa italiana, e le altre note sentenze “Brasserie du Pecheur”, “British Telecom”, “Dillenkofer”.

L’orientamento sull’esistenza dell’obbligo per il giudice nazionale di applicare in una causa una direttiva europea di cui sia scaduto il termine per il recepimento anche se non è ancora stata attuata è confermato anche dalla Corte di Cassazione nelle sentenze 30 luglio 2001, n. 10429 e 26 settembre 1996, n. 8504.

II problema del risarcimento ai soggetti lesi dal tardivo colpevole recepimento, di cui si conta una nutrita casistica, in qualche caso — si veda recepimento tardivo della direttiva in tema di non obbligatorietà del trattamento vaccinale o di quella che riguarda la tutela dei lavoratori subordinati in caso di fallimento dell’azienda — è stato risolto stabilendo una forma di risarcimento per i danneggiati nella legge di recepimento stessa a carico del bilancio dello Stato.

Non è così nel caso della direttiva Macchine: al danneggiato da una delle macchine costruite non conformemente ai requisiti della direttiva non rimane che chiedere, attraverso una causa, al giudice l’applicazione della direttiva non attuata e, se ciò non viene ottenuto, chiedere il risarcimento allo Stato.

Come considerazione finale, visto il primato del diritto comunitario su quello nazionale, si può dire che la legislazione comunitaria prescrive il risultato e quella interna predispone i mezzi per conseguirlo.

[1]  Da questa norma fondamentale discendono molte altre presenti nell’ordinamento italiano, che riguardano la sicurezza sul lavoro, tra cui il D.Lgs. 81/2008.

[2]  Nel caso della direttiva Macchine, il risultato è la sicurezza delle macchine.

[3]  A proposito di quanto qui descritto, si può fare riferimento ai seguenti testi:

  • Paolo Cendon, Gli interessi protetti nella responsabilità civile, vol. IV, Posizioni soggettive della Comunità Europea, Utet, 2005;
  • Enrico Scoditti, La responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario, in “Danno e Responsabilità” n. 1/2005;
  • Ferdinando Lajolo Di Cossano, La responsabilità dello Stato per violazioni del diritto comunitario, in “Diritto del Commercio Internazionale”, luglio-dicembre 2006;
  • Francesca Ippolito, Responsabilità dello Stato per violazione dei diritto comunitario: prassi della giurisprudenza interna, in “Diritto del Commercio Internazionale”, luglio-dicembre 2005;
  • Claudio Consolo, Il primato del diritto comunitario e il giudicato sostanziale, in “Corriere Giuridico”, n. 9/2007;
  • Enrico Scoditti, The king can do no wrong, in “Danno e Responsabilità” n. 27/2003, nota a sentenza Cass. Civ. 16 maggio 2003 n. 7630;
  • Roberto Caranta, In materia di conseguenze per la mancata trasposizione di una direttiva comunitaria nell’ordinamento italiano, in “Responsabilità Civile e Previdenza” 1996309;
  • Luigi Daniele, La Corte di Giustizia conferma l’efficacia diretta intermittente delle direttive comunitarie, in “Foro Italiano”, 1995, IV, 38.
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